E’ divertente, si fa per dire, constatare che dal punto di vista storico nascere tra le polemiche è un destino che accomuna la realizzazione delle infrastrutture viarie della nostra zona. Mi riferisco non solo alla tormentata gestazione della fantomatica Trasversale delle Serre, ma anche alla lontana nascita di quella che è ancora la principale via di collegamento con la costa tirrenica. Oggi nota come Statale 110, un tempo si chiamava Strada della Mongiana in quanto suo precipuo scopo era collegare gli stabilimenti siderurgici al porto di Pizzo da dove i prodotti erano imbarcati per giungere a destinazione. Alla esclusiva esistenza di Mongiana, non di Serra, San Nicola, Spadola, Brognaturo e Simbarìo si deve il merito della costruzione in epoca borbonica della strada. In precedenza solo alcuni malagevoli tratturi, semplici mulattiere impercorribili dai carri, erano a disposizione di chi avesse avuto bisogno di raggiungere le aree costiere. Da questo punto di vista la presenza dell’importante Certosa aveva sempre favorito e mai alleviato i disagi dell’isolamento tipico del cenobio.
Venendo all’oggi, c’è da dire che puntualmente, più o meno da quarant’anni, alla vigilia di ogni tornata elettorale la conventicola politica di turno sfodera dal cassetto il progetto della superstrada cercando di arrogarsi un qualche merito nella ancora, ahinoi, futura realizzazione. Il tormentone si trascina dall’epoca della istituzione della Regione Calabria. Personalmente ne sento parlare dal giorno in cui, fanfara in resta, la allora Giunta Regionale presieduta dall’On. Ferrara organizzò a Serra pubblica esposizione del progetto corredandolo di gigantografie esplicative del tracciato. Sembra una barzelletta: da quei lontani giorni la strada, progettata, riprogettata e rimaneggiata per volontà dell’uno e dell’altro caporione, mutato a più riprese il tracciato in modo da accontentare le bizze campanilistiche di alcune bellicose comunità locali, è sempre stata sbandierata come il fiore all’occhiello di una politica tesa allo sviluppo locale. Anni fa, tra Gagliato e Argusto, fu realizzata una manciata di isolati viadotti, lasciato poi preda degli sterpi. Di recente si registra una ripresa di attività, ma limitata per ora allo sbancamento della carreggiata di alcune parti del percorso. Per giunta, quelli cui oggi si è messo mano sono tratti avulsi da quei flussi veicolari tirrenici che, in ambito turistico e considerata la presenza di autostrada, aeroporto e stazioni ferroviarie, sarebbe utile attrarre. Non voglio andare oltre nel merito della diatriba, me ne guardo bene, la vicenda è lunga e chissà quando e chi ne vedrà la fine.
Vorrei ora ricordare ai miei rari lettori la storia della nascita di quella che al momento è ancora la principale via di collegamento con il sistema viario nazionale, intendo dire quella che è stata ribattezzata Strada Statale 110. Anch’essa nacque tra le polemiche, anzi, per l’esattezza, nacque da una polemica giornalistica divampata a Napoli negli anni Trenta dell’Ottocento. Erano gli anni in cui era sorta la Zino & Henry, prima società metalmeccanica privata a prevalente indirizzo civile e non militare come Mongiana. Nel 1834, sul Giornale di Commercio di Napoli appare un articolo a firma di tale Giuseppe Del Re che, a nome dei settori ultranazionalistici, attacca i due soci rei, a suo dire, di preferire la ghisa inglese a discapito di quella di Mongiana. Altrettanto pubblicamente, a mezzo stampa, i due ribattono che solo gli altiforni inglesi marcianti a coke producono la ghisa nera adatta alle loro lavorazioni e che, quand’anche Mongiana fosse stata in grado di produrla, il costo della sua ghisa sarebbe risultato comunque superiore in considerazione dell’alta incidenza dei trasporti, stante l’assoluta mancanza di strade percorribili dai carri. Devo ricordare all’impavido lettore che avesse avuto il fegato di continuare a leggere che i prodotti mongianesi erano trasportati alla marina da un foltissimo stuolo di muli e mulattieri il cui onere di mantenimento ricadeva a carico dello stabilimento La secca e argomentata risposta dei due soci suscita la positiva reazione del Governo; lo stesso Re Ferdinando II è consapevole della precaria situazione viaria avendone personale e diretta esperienza. L’anno precedente è andato alla inaugurazione della fonderia succursale che, in suo onore, ha preso il nome di Ferdinandea. Ebbene si, mio impavido lettore, Ferdinandea era uno stabilimento di produzione, non un Casino di caccia borbonico come ha sempre sostenuto l’acefa e casinara tradizione locale. Ma questa è un’altra storia di cui ho già detto in un mio lontano saggio sulle ferriere di Mongiana.
Nel 1837, dando seguito a un precedente progetto del 1828, su sollecitazione del Segretario di Stato per la Guerra e Marina, Ferdinando ordina la costruzione della strada e, sullo slancio, decide la costruzione della prima ferrovia italiana di cui proprio i soci Zino e Henry si accaparrano la maggior parte delle opere infrastrutturali.
A ben vedere, il tracciato borbonico si configura come una trasversale ante litteram perché, provenendo dalla foce tirrenica dell’Angitola, scavalcava le montagne e, divaricandosi sul Monte Cucco, proseguiva a destra per Mongiana e, a sinistra, lambendo la Ferriera di Razzona di Cardinale, si innestava sulla strada che da Chiaravalle scendeva alla marina ionica di Soverato. Le comunità montane inviarono ringraziamenti al Sovrano per la bontà sua nel decidersi ad alleviare i disagi dell’isolamento cui erano state condannate. Ma, a progetto ultimato e a tracciato reso noto, la gioia di molti si mutò in cocente delusione. Anche in quella occasione sulla scelta del tracciato divamparono le polemiche, gli scontri tra i Sindaci furono violenti e le polemiche degenerarono in accuse di favoritismi e intrallazzi. Suppliche di tono risentito furono inviate al Re affinché fosse rivisto il tracciato che dagli esclusi era considerato il più complesso e oneroso. Degli scontenti si fece portavoce il Sindaco di Monterosso il quale, con l’unanimità del Consiglio Comunale, inviò al monarca una relazione-supplica molto puntuale che, tra l’altro, avanzava larvati dubbi circa l’onestà del progettista dell’opera, tale ingegner Palmieri.
A vicenda ormai conclusa e a tradimento perpetrato, gli ingannati tirarono fuori la loro durezza dando alla vicenda il sapore dei contrasti portati al limite dell’odio duraturo. Eppure, finché si era stati in tempo, per dirimere la vertenza erano stati tirati in ballo tutti gli organi competenti, dal Direttore Generale di Ponti e Strade allo stesso Sovrano, ma il tracciato del chiacchierato Palmieri non mutò di un millimetro. A rimarcare l’analogia con l’odierna trasversale, l’opera, divisa in sette tronchi, non fu realizzata con continuità. Fu però completata nella metà del tempo occorso alla gestazione progettuale della strada attuale. Nel 1850 risultavano in esercizio i primi tre tronchi, Pizzo-San Nicola, mentre in via di completamento risultava il quarto, San Nicola-Serra. L’anno successivo fu messo in cantiere il quinto tronco, Serra-Mongiana, insieme al sesto, quello che dalle pianure del Ninfo, superato il valico del Pecoraro, scendeva a Ferdinandea per innestarsi sulla preesistente strada che, via Pazzano, giungeva al mare nei pressi di Monasterace. Il settimo tronco, l’ultimo, non rientrava nel nuovo tracciato ma era parte organica delle migliorie apportate al sistema di trasporto dei materiali della ferriera. Questo, infatti, era un piccolo tratto urbano che dalla Piazzaforte di Pizzo scendeva ai depositi dislocati lungo la marina.
Il nuovo percorso si valse in minima parte delle vecchie mulattiere; la maggior parte fu aperto ex novo scavalcando molti torrenti con costruzione di un cospicuo numero di ponti. I trasporti ebbero immediato impulso: i mulattieri, riconvertiti in carrettieri, presero confidenza con i carri. Ciò comportò una riduzione dei tempi di percorrenza che non è esagerato valutare nell’ordine del trecento per cento. Si registrò un notevole incremento delle quantità trasportate e una diminuzione dei costi generali della ghisa.