Tra i capitoli più importanti dell’archeologia industriale nell’area delle Serre calabresi un posto eminente è occupato dalle segherie di Serra San Bruno, molte delle quali storicamente erano legate alla presenza della Certosa. La descrizione letterariamente più efficace delle segherie certosine è dovuta a Horace de Rilliet, il chirurgo ginevrino che giunse in Calabria nel 1852 al seguito del re Ferdinando II. “Il paesaggio – scrive Rilliet – ha realmente le caratteristiche delle nostre montagne della Svizzera: una segheria di tavole impiantata sul corso del ruscello, lungo il quale sono sparsi tronchi d’alberi, la piccola casuccia grossolanamente costruita con tavole mal congiunte, la foresta di abeti da dove esce spumeggiante la cascata che fa muovere la sega, tutto ciò forma un quadro alpestre dei più pittoreschi”. Con minore attenzione per gli aspetti arcadici del paesaggio, ma con sguardo rivolto alle condizioni economiche del comprensorio all’indomani del terremoto settecentesco, già Domenico Grimaldi aveva avuto modo di richiamare la presenza delle segherie certosine, fondamentali, a suo dire, per la complessa opera di ricostruzione successiva al sisma del 1783: “Le montagne fanno corona ad una parte della pianura, e sono vestite quasi tutte di abeti dalle quali si ricava ogni anno un considerabile numero di tavole per mezzo di tre seghe mosse dall’acqua, onde il prodotto più ricco della Lega sono appunto le tavole al presente cotanto necessarie per la riedificazione della Provincia”. Le osservazioni di Grimaldi e la distesa contemplazione paesaggistica di Horace Rilliet trovano riscontro nella documentazione iconografica e archivistica settecentesca, nella quale la presenza delle segherie è segnalata come una delle attività produttive certosine più rilevanti. È il caso del catasto onciario relativo a Spadola e Serra, ultimato nel 1746, che riporta, accanto a sei mulini e ad un battindiere, anche due segherie ad acqua ubicate in località S. Maria del Bosco e Archiforo. Di quest’ultima segheria esiste, peraltro, una precisa traccia anche nelle carte topografiche del XVIII secolo che descrivono il territorio della “Lega” certosina donata a San Bruno da Ruggero il Normanno nel 1093, come accade nel quarto volume del manoscritto della Storia certosina di Dom Benedetto Tromby, in cui è contenuto un disegno – “quasi barocco”, secondo il giudizio di Ilario Principe – nel quale, proprio in località Archiforo, è indicata la presenza di una Serra Tabularum. Al confine tra il territorio di Serra e quello di Brognaturo l’iconografia settecentesca consente di rintracciare un’altra segheria ad acqua, la Serra Chindillorum, che dalle indicazioni riportate nella cartografia storica calabrese apprendiamo essere stata “diruta” già prima del terremoto del 1783. Di essa abbiamo una breve descrizione in una nota di Dom Basilio Caminada (per qualche decennio bibliotecario e archivista della Certosa) risalente agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso: “Assai più dentro nei boschi di Serra […] c’è la Sega di Chindilli, detta anche di Cici Pupo. È rovinata gravemente ma conserva ancora i 6 rulli che dovevano servire ad avvicinare le tavole al ferro della sega, anzi con qualche rullo supplementario, e perfino con il ferro della sega, a testimonianza irrefragabile della sua funzione antica. Vicine a questa sega si trovano alcune case abbandonate ed in stato di degrado avanzato”. Probabile erede della Serra Tabularum è la “serra dei monaci”, le cui vicende di degrado architettonico siamo in grado di seguire fino ai giorni nostri. Il documento fotografico più interessante è una lastra fotografica di fine Ottocento, conservata, insieme con altre 74, nell’archivio della Certosa di Serra San Bruno. In questa lastra la struttura architettonica frontale della segheria è perfettamente leggibile, così come risulta con evidenza delineato il contesto ambientale nel quale essa si trovava collocata: il canale di alimentazione ricavato dalle acque del fiume Garusi in primo piano, le sparse presenze di architetture rurali di là dal canale, la catena montuosa delle Serre calabre sullo sfondo. Di notevole interesse erano due elementi decorativi, sistemati in posizione centrale sul fronte d’ingresso della costruzione, oggi andati dispersi: una statua granitica di San Giuseppe con Gesù Bambino in braccio e un grande pezzo di pietra con il simbolo CAR (= Cartusia) dei certosini dentro cui andava ad innestarsi una croce. Ai piedi di San Giuseppe, come epigrafe della base sulla quale poggia la statua, stava un versetto del Cantico dei Cantici: POSUERUNT ME CUSTODEM [in vineis] (Ct 1, 6). La segheria rimase in possesso della Certosa – pur avendo ormai smesso ogni funzione – fino al giugno 1962, quando venne decisa la sua cessione ad un privato. Il 19 agosto del 1968, durante lo spaziamento settimanale, due monaci certosini notarono la sparizione della statua e del piedistallo che la sosteneva. L’opera di trafugamento degli elementi decorativi originari venne successivamente completata con l’asportazione anche del monogramma certosino posto sull’arco granitico centrale del complesso architettonico. Ciò che rimane oggi di essa è letteralmente invaso dalla vegetazione e il rudere è nascosto da rigogliosi ciuffi di fogliame, sterpaglie e arbusti. Insomma, un processo di cancellazione della storia e della memoria di cui non si può sicuramente andare orgogliosi.
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