Santo Teodoro la “Chiesoletta”, perché è solo più di una cappella con un annesso giardino pubblico.
Perciò la si dovrebbe pensare come una pieve di campagna se non fosse che il suo prospetto fonda sul margine della via principale del paese.
Oggi, la guardo ristrutturata più bella, però mi sembra di averla vista sempre bella, qui da sotto alla sua lunga ombra sulla Giudecca, in cui io ci sono nato.
Senza conoscerne la sua vera storia si può anche ipotizzare che l’avrebbero consacrata al santo orientale del III sec.aC. Teodoro Tirone (dal greco tyron-soldato, perciò protettore dei militari) e lo stesso santo è altresì chiamato San Teodoro di Amasea, città dell’attuale Turchia a 90 km dal Mar Nero.
San Teodoro celebrato da tutta la cristianità orientale greco-bizantina fu patrono di Venezia fino al XIII secolo e da allora anche nel sud federiciano è stato patrono di Brindisi, dove lo è a tutt’oggi.
In Arena verosimilmente esiste un altro richiamo al soldato romano Teodoro e Santo martire con l’antica via Tirone a monte del paese, lasciando dedurre che l’originario borgo medioevale e tutto il territorio mandamentale, ancora prima della iattura normanna dell’XI secolo, siano stati interessati da marcati sviluppi di cultura greco-bizantina, diventando attraverso i fondati conventi basiliani un alveo proficuo di spiritualità cristiano-orientale.
Ma per noi contemporanei, figli della dimenticanza storica, la “chiesoletta” è stata sempre considerata una pertinenza di prossimità al palazzo padronale della famiglia di don Peppino Cesarelli.
L’Edificio, nel luogo in cui sorge, è di rispecchiante pretesa con il robusto portale, i pilastri d’angolo, gli affacci minori e la balconata perimetrale a posa d’opera in granito, di cui si racconta di essere stato originariamente un convento, forse di rito greco-latino fino al grande terremoto del 1783.
Da aggiungere doverosamente che il palazzo risulta ancora più antico dello stesso odonimo dato alla contigua via Giudecca, la stessa che da alcuni “solerti” arenesi d’ultima generazione fu proclamata dal 2011 storico sito di stanziamento ebraico.
Invece, una croce greca scolpita in rilievo su medaglione di granito resta murata nella via Giudecca, a vista oggi del corrispondente numero civico 87, dove la narrazione popolare vuole che sia stata traslata lì abusivamente da moltissimi anni, dopo la sua estrazione dalla cappella istoriata nel palazzo Cesarelli che i signori avevano trasformato in magazzino.
Successivamente anche l’antico portale della cappella fu cancellato sotto l’intonaco di facciata e venne demolito anche il sagrato di pietra con scalinata laterale, che discendeva proprio nello slargo di Santo Teodoro.
Quel sagrato me lo ricordo da ragazzo, perché su quei gradini e sulla soglia del portale ci andavamo a giocare a figurine, inconsapevoli che stavamo a fare baldoria sulla pietra di un tempio profanato, tra le ultime vestigia della nostra identità storica.
Passando per l’opposto lato della strada, solo per guardare la sua facciata da terra agli sporti più sopraelevati che contrastano col cielo, la Chiesoletta di San Teodoro primeggia per forma ed apertura sulle case basse dell’antistante slargo e su tutte le altre costipate in fila l’una appresso all’altra a discendere sui due margini della via.
Sulla cortina di fondo in nudo conglomerato di pietre e laterizi prende aggetto un arredo murario di cornici in chiaro intonaco rasato e di stilizzate paraste d’angolo in tinta cemento ai lati della facciata in funzione di ornativa portanza alla sovrapposizione del cornicione dai profili a sporgenze sbalzate.
Sull’impalcato del cornicione, sulle opposte estremità, sono disposti due elementi piramidali con base a prisma quadrangolare, che conferiscono classicismo architettonico e slancio prospettico alla sopraelevazione trigona, in cui le campane dimorano sotto gli archetti di due adiacenti finestre verticali inserite fra un ternario di lesene che si combinano con la superiore cornice di coronamento e frontone terminale.
Il portale d’ingresso si distingue per la semplice geometria in masso-granito, arricchito agli estremi dell’architrave dal due formelle di glifi dal tratto alessandrino, poste in chiave di raccordo con una sovrapposta cornice a prominenza scalata.
Nel complessivo architettonico della facciata il portale della “Chiesoletta” risulta di disegno sovradimensionato al fine di offrire la massima ampiezza visiva dell’interno, per attrarre l’attenzione di chi passa frettoloso per lavia Giudecca.
Oltre la soglia del portale, sul passaggio d’entrata incombe a soffitto il tavolato del matroneo che demarca il sottostante endo-spazio di collegamento all’unica navata della chiesa, in cui fa luce di sfondo il tempio dell’altare con la teca incastonata della Madonna del Rosario.
Tutta la prospettiva sacrale si adorna di un’aura celeste, nella convergenza delle trombe di luce che scaturiscono dagli opposti varchi-finestrati, al di sotto della cornice di sottotetto per catturare i primi bagliori del mattino e gli ultimi della sera.
La diagonale della luce sulle superfici dipinte dell’altare mette in risalto tutte le prospettive chiaroscurali a predominio verticale, sviluppando un’ingannevole veridicità alle venature dei finti marmi dai contrasti policromi e sulla falsa tridimensionalità di cornici aggettanti, colonne puntinate, glifi e cesti floreali.
Sull’intera pala lignea dell’altare si raffigura una teoria decorativa di impressione barocca di meritevole interesse, però fino ad oggi abbandonata all’ignorante indifferenza.
Là fuori la via Giudecca è deserta, assopita in una mite solarità che ci trasporta indietro nel tempo, come nelle diapositive dell’Intervallo di vecchie sigle TV in bianco e nero.
Dai finestroni soleggiati in alto alla navata e dal portale attraversato dal fascio di luce radente sul mattonato, il ristagno d’aria si converte in tepore diafano, dai sentori di argilla
cotta e calce… ed un espiro sospeso di aridi legni d’assito trasporta fin dietro all’altare, dove il legno di spalla si sveste nudo e scuro, evocante una storia molto più antica di questo tempio minore.
Il luogo stesso e le sue prossimità territoriali, ispirano l’immaginazione ad un affascinamento per il medioevo, che ci lega al Grande scisma d’Oriente (1054) ed alla conquista normanna.
Tutte le nostre vecchie chiese raccontano a chi le sa ascoltare, allorquando in Calabria dall’iniziale “coesistenza” tra la cultura greca e la cultura latina finì che nei secoli successivi quella latina prevalse totalmente a discapito della cultura greca -bizantina.
Così in campo religioso non bastò la comunione tra la Chiesa d’Oriente con la Chiesa cattolica di Roma nel poco seguito sincretismo di rito “greco-cattolico”, ma nel tempo a seguire tra le due dottrine cristiane la separazione diventò incolmabile e perdurò l’arbitrio nella distruzione del patrimonio di rito bizantino e nella cancellazione-dispersione dell’iconografia greco-orientale.
Oltre la narrazione popolare, non esiste una ratificata storiografia di Arena; mancano le testimonianze documentali dell’epoca pre-normanna e sono invece poche, frammentarie e discrepanti le testimonianze sul lungo periodo storico dall’incastellamento normanno fino al grande terremoto del 1783.
Per quanto riguarda l’esiguo patrimonio della “Chiesoletta” di Santo Teodoro, in successione dall’ex convento poi palazzo Cesarelli, si collega la anzidetta croce greca, scolpita in rilievo su medaglione di granito oggi murato a vista nel prospetto della casa in via Giudecca e l’acquasantiera su fusto di granito posta nel fondo d’angolo a sinistra del portale.
Per osservazione oggettiva si distingue come il granito del catino sia diverso per struttura granulosa e foggia stilistica dal fusto su cui si poggia, ipotizzando che il catino di pietra possa datarsi molto più antico rispetto al fusto ed appartenere al periodo ed alla stessa mano d’artista che ha scolpito la monumentale vasca della fontana a zampillo attualmente collocata nella piazzetta antistante la chiesa di Maria SS delle Grazie.
… Un eremitico silenzio favorisce la distorsione onirica dell’immaginazione sul filo della memoria da cui trapela una sensazione di rose e gerani, quando le anziane devote alla Madonna del rosario le smezzavano spampanate nei vasi sui ripiani dell’altare.
La chiesa vista dall’interno assume le dimensioni di una sala da cinematografo d’essai e l’entrata oltre i banchi è una cornice in piena luce sulla quale prende sembianza imponente il palco rialzato del matroneo con balaustra in sagome di legno piallate a colonnine.
Sopra si accede da una cateratta di poca ampiezza a lato destro dell’assito di calpestio, alla quale si attaccava una ripida scala di legno che risaliva a ridosso del muro, oggi sostituita da una più sicura scaletta a chiocciola di ferro, disarmonica con il contesto della chiesa.
Noi ragazzi si filava di fretta su per quella stretta scala, agili come scoiattoli sui rami, per arrivarci prima sotto i cordigli delle campane che dalla bifora si affacciano sulla discendente via del paese.
Ogni pomeriggio di maggio lo scampanìo ribattente della Chiesoletta s’intonava sulla ruga della Giudecca richiamando alla preghiera di comunità per la Madonnina del rosario.
Venivano le donne più anziane, nei loro panni di nero ed i capelli bianchi stirati a pettine fitto e raccolti a cercina dietro la nuca, salvo alcune, col vezzo di coprirsi la testa con la “saia” di lana, ripiegata a quel modo di abaco come le cariatidi greche.
Erano loro le prime a sortire dagli usci, portandosi a braccio anche le seggiole e le altre seguivano attardandosi dopo aver chiuso la porta di casa ai loro stessi mariti, ma per qualcuna nubile di mezza età al Rosario ci andava per pregare alla grazia di trovare uno sposo dall’animo gentile.
Dopo il mese di maggio una mezza porta si teneva socchiusa sul sagrato e soltanto al passaggio delle processioni si riapriva l’intero portale, sotto l’esteso ripetersi degli scampanii.
Sotto la Pasqua, per il giovedì santo un panno liturgico ricopriva il crocifisso sull’altare e l’aria bassa della chiesa aveva l’odore dei germogli di grano, a fitti steli traboccanti dalle graste poste sui lati del portale e che intristivano i gradini e la mensa d’altare.
Per la mattina di Pasqua si ripuliva e la Chiesoletta ritornava a ravvivarsi di festa, perché dalla sera a tutta la notte sarebbe diventata il santuario stazionale del Cristo Risorto,
A tarda sera, la processione sotto un riverbero fiammeggiante di torce seguiva il fragore del tamburo che si fermava davanti alla chiesa con l’effige imponente del Cristo Risorto portato a fare l’ingresso in Santo Teodoro.
Così, man mano che le torce spegnevano le fiamme, fumigavano di cera riarsa e nella via della Giudecca il leppo stringeva la gola.
La Chiesoletta, quella sera assurgeva a santuario di pellegrinaggio per accogliere il passaggio silenzioso di molti fedeli, alcuni posavano il proprio cero sul pavimento intorno alla “vara” del Risorto, tra una schiera di altri ceri accesi che colorivano di riflessi la lustra coltre d’effigie.
Solo chi si sentiva di chiedere indulgenza restava in preghiera per tutta la notte e la mattina dell’Angelo salutava l’effigie gloriosa del Gesù Risorto che usciva dalla chiesa per essere portato all’Affrontata.