Entrando nella Chiesa Matrice non tutti si accorgono di una vistosa discrasia che concorre a deturpare non poco l’armonica sontuosità di quel tempio. Dopo avere intinto le dita nell’acqua benedetta e aver fatto devotamente il segno della croce, lo sguardo si perde nell’ampio spazio della volta la quale si presenta diversificata nella sua prospettiva frontale. Guardando attentamente, infatti, l’osservatore si accorge che la parte sovrastante il coro è abbondantemente decorata con pitture e rosoni, mentre quella sovrastante la navata centrale è liscia e nuda come la pelle di una balena. Sarà stata una grossa svista del direttore dei lavori oppure un increscioso e anacronistico errore architettonico come ce ne sono tanti nelle belle e sontuose chiese del nostro Meridione. Fatto sta che in un tempio di così ardimentosa e mirabile bellezza la cosa desta non poca perplessità e meraviglia.
Per saperne di più armiamoci di pala e piccone e scendiamo più a fondo nelle profondità misteriose della storia. Si era nei primi anni del 1870 e la chiesa Matrice veniva ultimata ad opera del benemerito don Salomone Barillari, uomo d’ingegno e di cuore, il quale a sue spese provvedeva a completare il frontespizio, modificando il progetto dello Scaramuzzino con la costruzione di due logge laterali al posto dei due campanili previsti dal progetto originario. Nello stesso tempo si dava il via a lavori per migliorare e completare anche l’interno della chiesa, dotandola di un pavimento in marmo e di una balaustra antistante l’Altare Maggiore. Conclusa felicemente la parte inferiore, bisognava concludere altrettanto felicemente quella superiore e si pensava, quindi, di abbellire la volta ornandola con disegni, stucchi e varie decorazioni come degnamente si conveniva alla casa del Signore. Ma i Serresi erano facilmente portati a lanciare critiche. Per molti di loro nessuna cosa sembrava venisse fatta bene e, quindi, alimentavano discordie e accendevano polemiche.
Per evitare che anche sui lavori della volta si accendessero discordie, si pensò, allora, di nominare una commissione costituita da sacerdoti e secolari. In questo modo, convogliando sulle decisioni che si andavano a prendere il consenso di tutti, le cose, per forza, dovevano filare lisce come l’olio. In un primo momento la commissione operò bene. Si riunì e fissò all’unanimità come dovevano essere eseguiti i lavori, come doveva essere adornata la volta ed entro quali tempi gli interventi dovevano finire. Per prima cosa si diede mano alla volta del coro e dell’arco maggiore i quali furono abbelliti con varie specie di pitture e con bellissimi rosoni, incastonati all’interno di riquadri saldamente incollati sul piano della muratura.
Al termine di questa prima fase la volta del coro fu liberata dalle impalcature ed esposta alla vista dei fedeli. L’opera piacque a tutti e incontrò subito l’apprezzamento e l’ammirazione dei fedeli i quali caldeggiarono il prosieguo dei lavori anche per la restante parte della volta e, precisamente, per la parte sovrastante la navata centrale. Nei primi giorni di esposizione non si registrò nessuna critica e nessuna opposizione, tanto che sembrava che tutto accadeva in un altro mondo e non certo a Serra dove per molta gente tenere la lingua a posto e astenersi dalle mal dicerie era una vera e propria utopia. Non tardò molto, infatti, e cominciarono a circolare in paese le prime lamentele. A protestare furono per primi alcuni sacerdoti i quali, del tutto incompetenti del mestiere di muratore, cominciarono col dire che quei rosoni appesi al muro erano pericolosi perché potevano staccarsi dal soffitto e cadere sulla loro testa proprio nel bel mezzo delle funzioni. Presi da questi dubbi e da queste improvvide affermazioni, i sacerdoti che di solito durante le messe e i riti religiosi sedevano a ruota sugli scanni del coro cominciarono a disertare le funzioni. Erano convinti che quei rosoni da un momento all’altro potevano staccarsi dalla volta e uccidere qualcuno di loro.
Ci fu un putiferio generale. Il povero arciprete cercò in ogni modo di convincere i protestatari che il pericolo non c’era, né valsero le rassicurazioni degli architetti e degli stessi muratori. Si tentò di tutto, ma non c’è stato nulla da fare. Le polemiche e le critiche si accesero più infocate che mai e si alimentarono liti anche in Chiesa fino al punto da turbare il normale procedere delle funzioni religiose. In poco tempo i lavori furono sospesi e la commissione che tanto bene aveva operato venne sciolta. Fu così che la volta della navata centrale rimase liscia e spoglia come ancora oggi la vediamo. Don Domenico Rachiele, autore del secondo libro della Platea della chiesa Matrice, nel riferire tali avvenimenti 43 anni dopo così si è espresso a proposito dei rosoni della volta del coro: «I rosoni pare che dicano: noi siamo qui ma i contraddittori ben presto partirono per l’altra vita.» Anche noi oggi possiamo dire la stessa cosa. Da allora sono passati 150 anni e quei rosoni sono ancora tutti lì. Nemmeno uno di essi si è staccato e forse mai si staccherà