Mastro Giacù aveva un chiodo fisso: il tempo. A metà strada tra Vulcano e Pitagora, impiegava il suo ingegno nella costruzione di enormi orologi che venivano installati in alcune parti della Calabria. Passava le giornate e buona parte della notte nel fumo grigio rischiarato della “lumera”, a inventare, nella bottega, strani marchingegni a molle temprate. La fucina di Giuseppe Barillari detto Giacù non era soltanto un’officina da fabbro, ma il vero cuore pulsante dell’artigianato locale. A quei tempi non importava quanto fossero precisi gli orologi – e pare lo fossero davvero poco – quello che contava era costruirli coi movimenti più incomprensibili e complicati, cosi da non poter essere riprodotti. Movimenti cosi curiosi e particolari a causa dei quali il “governatore” dell’orologio, armato di scala, era costretto a salire più volte al giorno sui campanili da dove la “sveglia” scandiva il tempo, a caricarne le molle. Uno di questi orologi “da torre”, Mastro Giacù, lo costruì per la Chiesa di Maria SS. Assunta in cielo di Terravecchia, ed era “l’orologio dei cento colpi”.
La “sveglia” gigante che scandiva le ore dall’alto del lato sinistro del campanile della chiesa era collocata all’interno di una struttura in muratura e granito, e rappresentava il vanto dell’attività artigiana del ferro. Mastro Giacù aveva ideato e realizzato l’orologio nel diciannovesimo secolo attraverso l’impiego di complicati ingranaggi di ferro e ottone che ne costituivano il perfetto meccanismo e ne garantivano il corretto funzionamento. Con l’inconfondibile tintinnio dai cento colpi, l’orologio indicava ai cittadini montani l’ora della pausa e l’ora del riposo, certificando ufficialmente che era giunto il momento di soddisfare lo stomaco o rinfrancare il fisico per la dura fatica. L’opera meccanica, precisa e funzionante, dimostrava a che livello tecnico fosse giunto l’artigianato del ferro locale, per il quale Serra San Bruno, cosi come per le opere in legno e per la scultura, era rinomata in tutta la Calabria e nel meridione d’Italia. L’orologio, putroppo, cadde in disuso nel 1952 quando, sindaco Salvatore Salerno, fu deciso che contrastava con il prospetto artistico barocco della facciata appartenente alla splendida chiesa serrese e ne fu ordinata la rimozione. Non deve meravigliare al lettore il fatto che proprio le autorità che dovrebbero comprendere il valore artistico e storico di certe opere ne decidono invece il loro declino, di personalità dalla sensibilità artistica limitata Serra San Bruno ne ha avuto tante e ancora oggi, la cittadina montana, non accenna a lasciarne il primato. Una volta rimosso, secondo la ricostruzione che siamo riusciti a fare attraverso le testimonianze di alcune persone che ne ricordano la vicenda, l’orologio fu installato sulla torre municipale per poi cadere successivamente vittima dell’incuria e di quella orribile piaga, che affligge le più belle opere artistiche e artigiane, che si chiama disinteresse. Alcuni cittadini ricordano che l’opera meccanica fu affidata a qualche artigiano del luogo per il recupero del meccanismo e della struttura ma poi non se ne seppe più nulla. Nessuna amministrazione comunale, e nel tempo se ne sono succedute davvero tante, cosi come nessun seggio priorale della Confraternita religiosa che ha sede nella chiesa di Maria Santissima Assunta in cielo di Terravecchia, si sono mai preoccupati di recuperare l’opera meccanica che, da vanto dell’artigianato serrese del ferro è divenuto eminente esempio di incuria e disinteresse.
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