Era il Dicembre del 1957. Mio zio don Vincenzo era parroco di Serra da circa un anno, assistito in canonica da mia nonna Alfonsina. In quel periodo convivevano con noi il viceparroco don Peppino Russo e la madre. Mio padre, che lavorava allora a Catanzaro, e mia madre mi mandarono a Serra in anticipo rispetto al trasferimento di tutta la famiglia. Mi trovai a scoprire per la prima volta la neve. Avevo già iniziato la seconda elementare a S. Andrea, per cui nel trasferimento mi toccò entrare in una nuova scuola con un nuovo maestro e nuovi compagni. Ricordo che l’impatto non fu facile, ero un bambino abbastanza timido e parlavo con un dialetto diverso. Ci accorgemmo quasi subito tutti, il maestro, i compagni e io, che ero indietro sui programmi (ero ancora alle aste!) e questo fu evidenziato pubblicamente, con un naturale disagio mio. A pensarci ora, era normale che due scuole e due maestri potessero avere programmi diversi, senza dare colpa all’uno ed elogio all’altro. Peraltro, ho conservato per tutta la vita un ottimo rapporto con il maestro di S. Andrea, scomparso qualche mese fa. Comunque, a parte l’inizio, credo di aver recuperato presto e sono diventato gradualmente uno alunno molto diligente e apprezzato. È chiaro che alla mia età certi ricordi dell’infanzia possono apparire romanzati, però posso assicurare che quegli anni di scuola elementare sono stati ricchi di eventi che hanno segnato la mia formazione. Non c’è da fare alcun confronto con la scuola e gli scolari di oggi, visto il progresso culturale e anche tecnologico degli ultimi anni. Gli anni cinquanta li può capire solo chi li ha vissuti.
Al mattino andando a scuola capitava di incontrare i maestri lungo la strada: il mio aveva un portamento altero (nel senso positivo, così mi sembrava), portava sempre occhiali scuri e rispondeva “bongiorno” al saluto.
Il maestro era un tipo aperto, sportivo, amante della natura. Per quanto io sappia, portò per la prima volta a scuola la palla a volo; ci faceva giocare a palla avvelenata, in cui ero particolarmente veloce, andavamo regolarmente a gareggiare in palestra; ci portava a passeggio nel bosco: memorabile una gita a piedi a “Vasafimmini”, con pranzo al sacco, e la scalata a “Timpuni Tundu”. Ci portò a visitare la centrale elettrica della segheria di Poletto e l’acquedotto comunale, su cui dovevamo scrivere delle relazioni. Partecipavamo attivamente alla “Festa degli alberi”, partì da lui l’iniziativa di coltivare il giardino antistante la scuola piantando fiori. Amava la musica, così imparammo a cantare in coro “Va’ pensiero”. Doveva essere appassionato della lettura, a sentire con quale emozione ci leggeva il libro “Cuore”, a volte con le lacrime dietro gli occhiali scuri. Ogni tanto faceva entrare in aula la bella e frizzante sorella, che ci raccontava volentieri piacevoli favole. Ricordo che era molto paziente e di ciò avevano beneficio i bambini meno preparati o ripetenti. Imparai da lui, con esempi pratici, che “nonché” era una congiunzione affermativa, che il cuore funzionava come una “pompa” (questo mi fece fare una bella figura all’esame di quinta). Teneva molto all’ordine, in classe c’era un armadio dove custodivamo i quaderni di bella copia (quelli con la foderina nera), la deliziosa indimenticabile rivista “Selezione dei ragazzi”, altri oggetti comuni. Gareggiavamo a imitare la sua complessa firma.
Il maestro era anche severo, come poteva (e doveva) essere in quell’ambiente educativo. All’epoca si usava “la bacchetta” sulle mani come punizione. Non tollerava di vedere libri non foderati. Una volta vide sul mio tavolo un libro sfoderato. Mi chiamò alla cattedra, mi disse porgi le mani, mi diede due colpi. Chiesi: perché, maestro? Mi indicò il libro sfoderato. Risposi: maestro, non è mio! Le scuse non bastarono a lenire il mio dispiacere lacrimoso. Avrebbe voluto che gli restituissi le “bacchettate”…
Una volta scomparve dall’armadio una gomma da cancellare: poiché nessuno ammetteva di averla presa, ci costrinse a stare inchiodati in classe fino al pomeriggio inoltrato. Non ricordo se fu ritrovata.
La classe era numerosa, eravamo una trentina; ricordo molti dei miei compagni, alcuni li incontro ancora, la maggior parte spariti, forse all’estero. Eravamo molto affiatati, il maestro sapeva attirare l’attenzione e si prendeva cura di noi individualmente.
Come allora era in uso, al pomeriggio andavamo al doposcuola: mia madre mi affidava, insieme con mio fratello, all’esperienza bonaria ma austera del compianto maestro Brunino Scrivo. Ma qui ci vorrebbe uno scritto a parte. Inoltre, come tanti ragazzi, per qualche ora venivamo affidati o, meglio, sistemati presso il laboratorio di un falegname, di un sarto o di un barbiere non tanto per imparare un mestiere quanto per evitare, si diceva, di frequentare cattive compagnie.
Il mio rapporto con il maestro, per motivi legati all’amicizia delle nostre famiglie, ha trovato continuità anche fuori della scuola. Frequentavo la sua casa in paese e quella in campagna (ora divenuta un eccellente agriturismo), dove a volte mi rendevo utile in faccende domestiche e pure agricole. Non potete immaginare quante cose riusciva a realizzare con le proprie mani: in campagna si trasformava in un operatore factotum, per di più rispettando l’ecologia. Abbiamo trascorso stagioni indimenticabili sulla spiaggia di S. Andrea, dove anche quando ero alla scuola media fu in grado di farmi capire con facilità problemi di aritmetica per me ostica.
Ora siamo entrambi in età avanzata, lui più di me ovviamente, ma manteniamo un rapporto più che cordiale, di devozione da parte mia, ritenendomi io un alunno ben riuscito. Mi ha insegnato a scrivere.
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