“Fijjia ‘nta fascia e dota ‘nta cascia”. (Figlia in fascia e dote nella cassapanca)
Questo vecchio proverbio calabrese indica bene che molti anni fa, avere una figlia femmina in casa, era sì una gioia, ma anche un pensiero in più perchè si doveva pensare per tempo alla dote e quindi al matrimonio.
Le figlie erano una manna dal cielo per aiutare in casa quando le madri lavoravano fuori nei campi o presso i nobili, ma allo stesso tempo si sperava per loro in una buona sorte, cioè trovare un buon marito ed accasarsi al più presto piuttosto che ritrovarsele zitelle per casa.
Fin da piccole venivano indirizzate ai lavori domestici per non sfigurare un giorno col marito, ma soprattutto con la futura suocera, mentre nei ritagli di tempo libero si adoperavano a ricamare il proprio corredo o a cucirsi qualche vestito dalla sarta (majistra), dove di solito passavano i pomeriggi estivi ad imparare a cucire, tagliare, ricamare e rammendare. Molte di loro diventavano delle vere sarte (majistri i tajjiu) e sfruttavano quest’esperienza come lavoro in paese.
Una figlia era un piacere per gli occhi dei padri, ma anche un cruccio insistente a cercare di tenerla sulla dritta via per non dare adito alle malelingue e peggio ancora, diventare oggetto di chiacchiere infamanti (malanominata), per non rovinare il buon esito di un eventuale fidanzamento.
Ogni paese, ogni zona aveva le sue usanze e tradizioni consolidate negli anni, per qualsiasi cosa.
Per quanto riguarda il fidanzamento, era raro che i due ragazzi si conoscessero da sè, anche se spesso capitava, nei campi o per le strade, magari all’uscita dalla messa.
L’usanza più in voga, era quella di mettere in mezzo una terza persona, di solito un amico di famiglia della ragazza o una persona stimata in paese, spesso anziana e quindi più saggia.
Adocchiata la ragazza, il giovane la proponeva ai suoi genitori che se contenti della scelta del figlio, si adoperavano a mandare questa terza persona, “u ‘mbasciaturi” una specie di messaggero che faceva da tramite tra le due famiglie. La madre della sposa, se la richiesta veniva da persone che a lei garbavano, spesso s’inorgogliva facendo un pò la preziosa con una specie di tira e molla per farsi pregare, ma allo stesso tempo con la malizia di non farsi scappare da sotto al naso il buon partito. Spesso, la figlia, non assisteva ai discorsi dei grandi e se non origliava, o non veniva messa al corrente dai suoi, non sapeva nemmeno che in quegli incontri si decideva il suo futuro.
Se la cosa andava in porto si stabiliva un incontro col giovane accompagnato dai genitori e lì si discuteva delle doti fisiche e morali dei due ragazzi, ma anche di quella materiale, che riguardava il corredo, la casa, se vi era la possibilità e i più fortunati anche di qualche gruzzoletto di denaro.
Se il giovane aveva un lavoro sicuro, era molto ben accetto, anche se faceva il contadino, ma un artigiano (mastru) era più favorito.
Quando tutto era deciso si stabiliva un giorno per la festa ufficiale di fidanzamento (u singu) dove il ragazzo non solo regalava l’anello, ma di solito un’intera parure con collana ed orecchini. La ragazza regalava un anello e se vi era la possibilità anche un orologio.
La festa era molto importante per le famiglie e per i ragazzi perchè il fidanzamento diventava ufficiale e quindi i due giovani potevano andare insieme a messa, mangiare insieme nelle feste comandate ecc, ma sedendo sempre a debita distanza e se dovevano uscire non erano mai da soli. Capitava infatti che avessero dietro una sorella o fratello o in mancanza qualche cugina, ma anche la madre stessa della ragazza. Questo per non essere criticati da vicini e paesani. Era molto importante la buona reputazione e la serietà almeno fino al matrimonio anche per evitare che il legame venisse sciolto per qualche ripicca dei suoceri, con grande dispiacere e vergogna per la ragazza che ne restava segnata. Un classico segno di fidanzamento si poteva notare nella ricorrenza delle Palme. I giovani fidanzati erano in dovere d regalare una bella palma intrecciata alla propria ragazza che ricambiava con una bella ciambella (curujia) dolce, con le uova intere (tiralli) fatta con le proprie mani nella settimana santa e regalata per Pasqua.
Per la festa si invitavano parenti ed amici più stretti festeggiando con “nacatuli” e rosolio fatto in casa se si faceva solo un rinfresco, se invece si poteva fare di più, si preparava un vero ed abbondante pranzo con ogni ben di Dio.
In quelle occasioni i veri protagonisti di tutto sembravano i genitori piuttosto che i ragazzi, spesso seduti vicini, ma che nemmeno si parlavano e conoscevano. Tutti facevano a gara ad elogiare le doti dei propri protetti e i ragazzi restavano chiusi ed intimoriti dai discorsi dei grandi che programmavano il loro futuro insieme, a volte senza nemmeno chiedere, soprattutto alla fidanzata, se erano o meno d’accordo a quel legame. Molti di quei matrimoni sono stati veramente felici anche se pieni di sacrifici, ma molti altri sono stati dei veri strazi e supplizi, senza alcun amore e rispetto, soprattutto perchè non ci si poteva ribellare ad un marito-padrone che accampava diritti sulla moglie e sui figli senza che questi potessero ribellarsi. Col tempo e con le dovute leggi, molte cose, per fortuna, sono cambiate, soprattutto la possibilità di potersi scegliere da sè i propri compagni di vita, senza lo zampino dei genitori despoti che spesso continuavano ad intromettersi nella vita dei propri figli anche dopo sposati.
Queste erano un pò le usanze degli anni dal dopoguerra al settanta, circa, ma mia nonna mi raccontava di altre usanze antiche che a sentirle oggi sembrano veramente strane, ma che al tempo avevano fondamentale importanza per la buona riuscita di un matrimonio. Era normale sottostare a certe tradizioni per non farsi criticare. La parola degli altri era sempre importante e tenuta da conto.
Quella che più si ricorda al mio paese e che anche mia nonna mi raccontava, era l’usanza del ceppo davanti alla porta.
Praticamente, un ragazzo adocchiava una ragazza ed allora sceglieva un bel ceppo (zzuccu) e lo portava di notte davanti all’uscio dove questa abitava. La mattina appena il padre o la madre aprivano la porta, trovavano la sorpresa e sapendo che il giovane autore del gesto era sicuramente nascosto nei paraggi, decidevano o meno se accettarlo anche perchè in realtà sapevano già chi gironzolava attorno alla figlia. Di solito la protagonista di questa scenetta era la madre che per la solita teatralità che distingueva la vita del passato, facendosi sentire dal vicinato e dall’autore nascosto, se accettava, rumorosamente e inscenando, con la famiglia, che accorreva all’evento, entrava in casa il ceppo, altrimenti, altrettanto teatralmente, se rifiutava, lo spingeva lontano da casa sua e intonava una vecchia filastrocca:
“Cui misa u zzuccu avanti a porta?
Cui u misa u pò cacciare ca non ajiu fijji i maritare!
(Chi ha messo il ceppo davanti alla mia porta?
Chi l’ha messo lo può levare che non ho figlie da sposare!)
In questo caso il giovane se ne andava mogio, mogio, magari con l’intenzione di riprovarci escogitando un altro espediente, mentre se la risposta era positiva, se ne andava allegramente e speranzoso dei futuri sviluppi che l’avrebbero visto presto in quella casa come fidanzato ufficiale della ragazza che aveva adocchiato.