«Oggi vorrei essere un pidocchio: almeno questi, di cui alcuni in piena padronanza passeggiano sulle mie spalle, stanno al caldo, mentre io … nevica e siamo a oltre duemila metri. Ho una tana, nella quale ho fatto accendere del fuoco, ma temo di fare la fine del ghiro. Ad ogni modo sto bene e anche la nevralgia non mi tormenta più». Vorrebbe essere un pidocchio, per stare al caldo, così scrive dal fronte Azaria Tedeschi il 20 ottobre del 1916 alla cugina Peppinuzza, destinataria delle sue lettere (e viene in mente il grande viaggiatore e scrittore Bruce Chatwin, che, invece, sostiene di essere, e non di voler essere si badi bene, una rondine). Peppinuzza – Giuseppina Tedeschi, di 9 anni più piccola – è la destinataria della corrispondenza di Azaria, oggi conservata presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che comincia da Bengasi il 29 febbraio 1912 con la ormai nota lettera sull’«anima mussulmana» (nota perché già pubblicata dal “Fatto quotidiano”), si interrompe sino al 26 aprile del 1915 e da quella data continua intensamente fino all’8 settembre 1917, con la ripresa della notizia del suo ferimento alla coscia destra («senza ledere né osso né nervi») di cui aveva parlato in una precedente missiva del 5 settembre. Azaria Tedeschi, ufficiale di carriera del 79O Fanteria, medaglia d’argento al valor militare proprio per la ferita sulla Bainsizza («per una fucilata sparatami da un testone di croato») raccontata nelle due lettere a Peppinuzza sopra richiamate, era nato, com’è noto, a Serra il 30 gennaio del 1887 e morto alla testa del suo battaglione il 25 ottobre del 1917. Una morte eroica, che gli era valsa la medaglia d’oro al valor militare alla memoria conferita il 4 luglio di tre anni dopo con questa motivazione: «Non ancora completamente guarito da una ferita riportata in combattimento, di propria iniziativa accorse ad assumere il comando del suo battaglione che sapeva in procinto di essere impegnato nella lotta. Sferratosi un improvviso, irruento attacco di forze nemiche grandemente superiori, che in breve creò al reggimento una situazione disperata di confusione e di isolamento, conscio della estrema gravità dell’ora, alla testa delle sue truppe, corse con serena decisione e straordinaria fermezza ad arginare l’uragano, ma premuto sempre più dall’impeto di un avversario tre volte soverchiante per numero e per mezzi ed imbaldanzito ormai dal suo successo, con eroica decisione ed incitando col mirabile esempio del proprio ardimento i dipendenti, per primo si slanciò a capo fitto contro la ferrea cerchia degli assalitori, ed insieme con le proprie truppe si impegnò con essi in violento corpo a corpo, che con accanita tenacia sostenne, fin quando cadde gloriosamente colpito a morte». Le sue lettere, anche tragiche nel racconto di uccisioni e ferimenti, nel terribile resoconto delle notti al gelo, degli abiti inzuppati per giornate intere, dei vestiti mai dismessi per quaranta giorni consecutivi e delle scarpe una volta non levate per oltre una settimana, sono, tuttavia, attraversate dal filo rosso dell’ironia, di una certa levità e serenità che non le abbandona, tanto da sembrare un antidoto, una sorta di “salvavita” dentro le feroci “tempeste d’acciaio” della I guerra mondiale. Si pensi alla vicenda della sua “amante”, la cornacchia Borcoletta, che diventa compagna nell’antro in cui Azaria trova riparo: «Dimenticavo il più bello: la mia caverna io la divido con una compagna. Arricci il naso? Non so che farci. In una mia ricognizione ho catturato … una austriaca? Un’austriaca, dato che è nata in territorio soggetto agli Asburgo, ma una austriaca cornacchia. […] Una cornacchia autentica, che ora da padrona si aggira nel modesto antro» (lettera del 25 giugno 1915). E in una lettera successiva: «Povera bestiola, non sta molto bene. L’altro giorno per rubare della pasta è andata a finire con una gamba nella marmitta con l’acqua bollente. Si è scottata e spennata un poco, ora zoppica e non può camminare molto e perciò passa le sue giornate appollaiata sul tetto della mensa. Grida e protesta se tardano a portarle la sua razione di carne, perché malgrado tutto conserva un discreto appetito» (9 agosto 1915). Il segreto di questo suo atteggiamento è Azaria stesso a “svelarlo” nella lettera a Peppinuzza del 5 maggio 1916: «Del resto anche la guerra, come tutte le altre calamità e tutte le cose umane, è destinata a finire […]. Un po’ di pazienza, un po’ di rassegnazione, della vita bisogna guardare solo il lato bello e mettere nel dimenticatoio tutto il resto. Io, vedi, è da un anno che mi trovo in guerra, ma se dovessi continuamente pensare a essa a quest’ora sarei sottoterra o nel manicomio: invece sono contento e allegro, sto benissimo, […] alla guerra penso quel tanto che è necessario e non più poi … poi ho il mio cardellino, che canta sempre […]». Non certo un ottimismo ingenuo, facilone, ma la consapevolezza, chiara e lucida, della precarietà e della finitezza, da affrontare quasi con stoicismo, come ben si vede in un’altra epistola: «Mi dispiace per la morte di quei quattro serresi e specialmente quella di Micuzzo Barillari. Ho scritto ad Alfonso facendogli le mie condoglianze. Del resto di questi tempi per noi militari vale l’antico detto: oggi in guerra domani sotterra». Forse, in trincea, era la più opportuna tecnica di sopravvivenza.
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