…..all’anagrafe: Letizia Clemente, nato a Serra S. Bruno il 7 aprile 1915 dal fu Gerardo e dalla fu Amato Marina.
Già, dal fu Gerardo. < Gilardu !> Io me lo ricordo dato che abitava in uno slargo vicino casa mia. Se lo era portato appresso il barone Chimirri da Catanzaro per fargli da cocchiere perché era molto bravo a trattare con i cavalli, sapeva domarli e renderli più docili alla volontà del padrone. Poi era passato, sempre come cocchiere, con la famiglia Tedeschi
Dopo, il Comune gli affidò l’incarico di annaffiare il Corso nei giorni di estate e gli fornì un carretto su cui era stata collocata una botte di zinco. E nel primo pomeriggio delle torridi giornate di agosto, <Gilardo> percorreva in lungo e in largo lo stradone con quel carretto tirato da un asino e i ragazzini, per divertirsi, mettevano i piedi nudi sotto le due docce per rinfrescarseli.
Tino era il quarto dei suoi figli ed anche lui, come molti giovani della sua età, era nulla facente sia per vocazione sia perché trovare lavoro in quei tempi era molto difficile. Lavorava, se lavoro si può chiamare, due volte all’anno e per due settimane, quando Calafiore arrivava da Nicotera a fine inverno e a fine estate col suo campionario di tessuti e lui, Tino, gli portava appresso le valigie contenenti le mazzette, quando andava a visitare i clienti per proporre loro le ultime novità in fatto di moda. Per il resto viveva di piccoli espedienti come, d’altronde, tutti quanti gli altri.
Sostavano seduti sui gradini della chiesa Addolorata, attigua al grande al magazzino di Di Bianco in attesa dell’arrivo da Pizzo dei traini carichi di merce da immagazzinare: pasta, zucchero, riso, farina,scatolame vario; dopodichè, una volta giunta la merce, si caricavano sulle spalle i sacchi dal peso di mezzo quintale ciascuno ( < Quartana > era capace di arrivare a quasi un quintale) e andavano a scaricarli nel deposito. Anche il vecchio <Pepè> si dava da fare: si copriva la testa con un sacco a mò di cappuccio che gli copriva anche le spalle e trasportava sacchi dal peso limitato; gli altri lo lasciavano fare, anche lui doveva campare! A fine lavoro si sedevano sui gradini della chiesa, bianchi di farina, e contavano quelle poche lire che avevano ricevute come compenso.
In alcune ore del mattino e della sera si costituivano invece nella piazzetta antistante la Chiesa Matrice dove si fermavano le corriere ( li postali ) per trasportare i bagagli a qualche viaggiatore.
Nelle varie attese il gruppetto si divertiva con battute salaci e facezie sul conto di persone conosciute e se poi, per caso, transitava da quelle parti qualcuno che il popolo credulone considerava stupido, per lui erano guai: lo provocavano prendendolo in giro, lo dileggiavano lanciandogli pesanti epiteti o richiamandogli alla memoria, con una battuta o frase, qualche episodio poco edificante della sua esistenza.
“…Feeeetari….venaaa!! Vena Mbinigna culla faccetta arruggiaaata!! “ lo scherniva sghignazzando insieme agli altri Quartara. E quel povero cristo, non potendo reagire contro quella accozzaglia di giovinastri, per la rabbia si conficcava le unghie nel palmo delle mani fino a farli sanguinare.
Tino stava in mezzo a loro ed assisteva divertito a tali spettacoli ma non vi partecipava. Si sentiva superiore a loro ( e lo era davvero) sia per il modo di pensare, sia per come concepiva la vita. Si poteva considerare un filosofo tra l’ epicureo e il romantico; la vita, per lui, doveva essere vissuta nella completa soddisfazione dei desideri, specialmente quelli che sono legati alla sopravvivenza, il mangiare, (possibilmente bene) e il bere ( meglio) per avere una esistenza felice e priva di dolore. Come romantico denotava una forte inclinazione verso la solitudine, un animo ipersensibile sempre pronto a continui turbamenti comportamentali e anticonvenzionali. .
E’ sintomatico il suo comportamento tenuto nel manicomio di Collegno dove fu trasferito allorché richiamato a prestare il servizio militare si finse pazzo. Qui continuò la commedia. Ogni giorno lo mandavano ad innaffiare una pianta rinsecchita che si trovava nel cortile ed egli, facendo finta di assecondarli e consapevole di ciò che faceva, prendeva il secchio, lo riempiva d’acqua e ve la versava sopra.
Di carattere asociale, era un personaggio eclettico; coltivava interessi culturali anche se in modo approssimativo; si dilettava a comporre poesie, ( sapeva leggere e scrivere avendo frequentato la scuola fino alla terza classe), eseguiva degli apprezzabili disegni ed era bravo anche nel modellare la creta ricavandone graziose statuine.
Aveva pure dimestichezza con due strumenti musicali: l’armonica a bocca e il marranzano o scacciapensieri, nel nostro gergo la catarra di li zingari poiché erano loro che lo forgiavano quando ogni anno, all’inizio della stagione autunnale, qualche loro gruppo arrivava a Serra sostando per qualche settimana.
Trovato uno spiazzo vi si accampavano. L’uomo, lo zingaro, si metteva a sedere a terra, scavava una buca, tirava fuori due mantici di pelle villosa, congiungeva nelle buca i due becchi di latta che si trovavano all’estremità dei due mantici e come se suonasse un organetto, vi soffiava dentro. Allora si accendeva la fiammella azzurra del carbone e quando questa, tra uno sfarfallio di scintille diventava gialla, tirava fuori un panetto di stagno e procedeva a saldare e a stagnare le caldaie che le donne del vicinato gli avevano portato. A volte, a richiesta, forgiava palette e molle ( palietti e pizzicaluori ) utili ad attizzare il fuoco nei bracieri e nei focolari.
Le donne, invece, con il loro caratteristico costume se ne andavano in giro per il paese ed entravano nelle case per “indovinare” la fortuna alle giovanette sussurrando loro: ”Uocchi di stella marina …!!! “ per accattivarsele e ottenere qualche compenso.
Con tali strumenti, l’armonica bocca e lo scaccia pensieri,Tino si dilettava a passare il tempo soprattutto nei momenti di ebbrezza e poi in occasione del Santo Natale e di carnevale .
Per trascorrere piacevolmente le festività natalizie aveva trovato un ottimo espediente: suonando l’armonica a bocca andava in giro per le strade a fare “ la novena”, però a modo suo: per prima cosa si procacciava i clienti, quindi suonava il primo giorno dopodichè non si faceva più sentire; riappariva nuovamente solo vigilia della festa per riscuotere il compenso che nessuno, nonostante tutto, gli negava.
Nei giorni di carnevale si mascherava tingendosi il volto con un po’ di nerofumo, poi indossata una vecchia giacca rivoltata, scendeva sul Corso e si fermava in uno slargo; quindi estraeva da una tasca il “marranzano” e si metteva a strimpellare il motivo di qualche vecchia tarantella. Parecchi passanti si fermavano ad ascoltare e quando se ne era formato un bel gruppo,si rimetteva lo strumento in tasca, saliva su un gradino di una scala esterna e con cadenza lenta e monotona intonava:
“ Io cantu ma la riecita
e la cantu alliegru a vinu
vi narrirò la stuoria e di…. ”
Il più delle volte si trattava di suscitare scandalo rendendo di pubblico dominio una storia dolorosa e circoscritta riguardante qualche famiglia perbene. Le persone che lo stavano ad ascoltare si compiacevano e ridevano divertite. Poi, alla fine dello “spettacolo”, lo ricompensavano con qualche moneta spicciola che lui andava a spendere nella più vicina cantina.
Malgrado il suo comportamento asociale, era capace, però, di forti sentimenti che teneva chiusi dentro di sé e mai esternandoli, ritenendo sacra la donna amata in silenzio.
Quando morì, ancora giovane, una nobildonna del luogo, sulla piazza antistante la chiesa dove si stava svolgendo il rito funebre si era raccolta una folla immensa, ed all’uscita della bara, dai gradini di una scala, nel silenzio profondo dovuto alla commozione del momento, si levò, alta, una voce: ” E’ morto il sole!” Tutti voltarono lo sguardo per rendesi conto di chi aveva pronunciato quella frase. Era stato lui..
Tino era il corifèo di quel gruppo di paria che vivevano alla giornata, tutti personaggi caratteristici di quel periodo ( all’incirca, metà anni trenta, fine anni quaranta). Si portava, dietro <Quartara>, dalla faccia piatta, dal naso camuso e dai piedi enormi e sempre nudi, forte come una quercia; <Civetta>, < Mbumba >, < Pepè >, < lu Curciu >: (il veterano!) dagli eterni calzoni grigioverde alla zuava con le fasce dello stesso colore, sempre allentate sulle gambe. Ed inoltre: Vitaliano e le figlie Nazzarena <la paccia> e Addulurata <la savia> e il di lei marito Gigi di Ammaculata di rizza il quale, nei pomeriggi afosi di estate, indossata una giacca, che in origine era stata bianca, inforcava un triciclo sul quale vi era uno speciale banco frigorifero e girando per le vie del paese gridava: “ Gelo-gelatiiii!, alla vera cremolata, due colori e due sapori!!…Gelati alla vaniglia, prima alla mamma e dopo alla figlia!!…”; ed ancora: <Tabidhuni>, <Vidhozza>, <lu tamburinaru>, <Ntuoni lu guobbu>, (il banditore del Comune) , ….e tanti, tanti altri che meriterebbero, ognuno, una trattazione. a parte.
Clicca per votare questo articolo!
[Voti: 0 Media: 0]