Non ho nostalgia per il passato, nemmeno un po’; ho solo il rammarico di non poter vedere scorrere il futuro, ma mi consolo pensando ai quattro o cinque miliardi di persone costretti a vivere lo stesso mio dramma. Con presunzione mi ritengo studioso di vicende del passato, ricercatore di fossili di ere antiche, una specie di archeologo delle sepolte memorie collettive. Oggi parlerò di una leggenda vivente, di un uomo e di un mestiere che affonda le radici nel trapassato remoto calabrese: Antonio Manganaro, costruttore di ricercatissime pipe. E’ famoso tra i collezionisti di varie nazioni, ma segue la sorte di tanti uomini e di tante cose serresi. Intendo dire che è quasi sconosciuto a noi concittadini, laddove il suo nome compare nell’Enciclopedia della Pipa, la stessa che garantisce essere la radica calabrese una delle migliori, se non la migliore in assoluto al mondo. L’Enceclopedia Britannica la cita insieme alla radice di liquirizia e al bergamotto come prodotto al top della nostra ferace terra di Calabria. Classe 1928, lingua tagliente come i suoi attrezzi, Manganaro ha un carattere in perpetua ebollizione. Borbotta sempre, e sarebbe capace di farlo per dodici ore di seguito, esattamente il tempo che occorre ai suoi pentoloni per cuocere i ciocchi d’erica prima di avviarli alla definitiva fase di lavorazione. E, in fin dei conti, definitivi e taglienti sono i suoi giudizi di burbero benefico, di uomo saggio e mite. Contraddizioni? Niente affatto, la vita lo ha plasmato così: scorza caustica, linguacciuto e sferzante, irriverente, spigoloso, poco incline al compromesso, ma dotato di profonda umanità. Tanto profonda che c’è bisogno di un’ottima vanga per portarla alla luce. Gli artigiani, quelli veri, son fatti così. E lui artigiano lo è, con l’aggravante di essere un artista, un peperoncino calabrese nato al sole della provincia di Reggio, a Melito di Porto Salvo, la cittadina più a sud della penisola. Tanto per intenderci: più a sud di Melito c’è solo il mare, e più a sud ancora vi trovate giusto in Libia.
Ho voluto conoscerlo e con estrema faccia tosta mi sono presentato al suo laboratorio. Mi ha ascoltato con malcelata pazienza e mi ha invitato a ripassare negli anni a venire perché a lui di interviste e giornalisti non gliene importava un fico secco. Mi ha solo detto: se volete una pipa, bene, altrimenti egregio signore io non ho altro da darvi e da dirvi e, pertanto, lasciatemi lavorare in santa pace. Dovevo essergli risultato simpatico perchè mi ha praticato un fortissimo sconto. Ne ho approfittato: sulla piazza di Roma e di Milano le sue pipe valgono una fortuna. Nei pressi di Piazza di Spagna ne ho viste alcune in vetrina a cifre da capogiro, roba da tre o quattrocento euro al pezzo. Perfette, con fiammature regolarissime, veri capolavori di forma e di sostanza.
Per vie traverse, raccomandato da un amico, sono poi riuscito ad entrare nelle sue grazie. A quel punto ho avuto l’ardire di chiedergli un ciocco d’erica perchè mi era venuta voglia di costruire una pipa. Abbiamo convenuto che ci saremmo rivisti a pipa finita. Lui ha ritirato di malavoglia un mio dattiloscritto su cui avevo anticipato le domande che gli avrei posto per la stesura di codesto articolo. Tutto fiero, di coltellino, sgorbie e raspette, ho dedicato tutto il mio ingegno al ciocco d’erica. Emozionato dalla perfezione del risultato, ho sottoposto al maestro la mia opera: Manganaro, credetemi, aveva le lagrime agli occhi! Piangeva il triste destino del suo ciocco e, singhiozzando, mi ha detto che se avessi avuto la ventura di essere un abitante delle praterie del West ed avessi avuto la fortuna di incontrare qualche pellerossa deficiente, beh, in quel caso avrei potuto rifilargli il mio calumet!
Quante pipe ha costruito? Era questa una delle furbe domande poste nel questionario dattiloscritto (che peraltro lui non ha mai letto). Col senno di poi, devo ammettere che la domanda era di una idiozia assoluta. E come faccio a saperlo? Lavoro pipe da quando avevo 17 anni! E, tutto sommato, è stato come chiedere ad un fornaio quante pagnotte ha sfornato in vita sua. Manganaro ha iniziato a lavorare insieme ai fratelli a Melito di Porto Salvo nel 1945, sulle orme del padre che già dal 1922 era fornitore della Surfuro & Gullì, nonché della rinomata Vassis di Marsiglia. Da Melito si trasferì a Capistrano dove nel 1951 impiantò il suo primo laboratorio. Nel 1956 approdò a Serra. Per evitare di ricevere qualche sferzante risposta, ho evitato di chiedergli il motivo. A lume di naso ritengo che l’abbia deciso perchè a quei tempi, contrariamente all’oggi, l’erica locale era abbondante e di prima qualità. Da cinquanta anni esatti lavora a Serra. Oggi si dedica quasi esclusivamente alla produzione di semilavorati. Di finite, e con il suo marchio, ne produce circa 600 all’anno. Con il suo semilavorato continua a rifornire il mercato francese, danese, cecoslovacco, tedesco, russo, canadese, maltese e statunitense. Insomma, per merito suo, qualcosa di Serra va in giro per il mondo. Dovreste conoscerlo, ma non vi presentate a nome mio: rischiereste di ricevere un ciocco d’erica sulla capoccia.